In diretta dall’Antico Egitto
È noto che lo studio della civiltà e cultura dell’Antico Egitto è stato possibile grazie ai moltissimi reperti ritrovati nelle tombe. Vi erano decine di oggetti personali del corredo e di arredo. Accanto al defunto si ponevano gli ushabti (letteralmente “quelli che rispondono”) ovvero le decine di statuette che avrebbero ripreso vita per servire ai bisogni del defunto. Sono rappresentati impegnati nelle attività quotidiane, quali preparare e cuocere il pane, produrre birra, innalzare abitazioni. Le tombe, poi, ci hanno fornito una teoria infinita di iscrizioni (sia nella complessa scrittura geroglifica che nel più quotidiano demotico) che ci hanno tramandato informazioni “in presa diretta” circa le abitudini di vita e il pensiero degli antichi abitanti della valle del Nilo.
L’anima secondo gli antichi
In una così stretta vicinanza tra il mondo dell’oltretomba e la scrittura, è naturale che nascessero le prime storie di fantasmi! È bene chiarire subito un concetto fondamentale per comprendere l’egiziano da morto: il corpo (che, come tutti sanno, doveva essere ben conservato dopo la morte) ospitava ciò che noi potremmo chiamare, con una certa approssimazione, l’anima; essa era composta da molte parti, ma tre erano le principali: il Ka, il Ba e l’Akh.
Semplificando molto: il Ka, rappresentato dal geroglifico di due braccia alzate, simboleggia la forza vitale di ogni individuo, e conduce quasi vita a sé rispetto al corpo. È la parte che si ricongiunge al corpo mummificato per rivivificarlo, garantendogli immortalità. Può muoversi liberamente nel mondo dei viventi e non conosce ostacoli.
Il Ba costituisce la parte più spirituale, la cui sostanza si avvicina alla divinità; è rappresentato dal geroglifico di un trampoliere e spesso si ritrova nelle tombe sotto forma di un uccellino.
L’Akh è l’elemento luminoso, la luce della vita, che alla morte si separa definitivamente dal corpo per brillare nel cielo in forma di stella. È rappresentato dal geroglifico dell’uccello ibis, che si pronuncia come la radice del verbo “brillare”.
Come nascono le storie di fantasmi.
Con queste doverose premesse comprendiamo meglio la nascita delle storie di fantasmi: il Ka vaga per ritrovare il corpo mummificato e si sposta liberamente anche nel mondo dei vivi! A volte li può importunare, specialmente nel periodo di 70 giorni, necessario per portare a termine il lungo e complesso processo di mummificazione. Una statua che rappresenta il defunto “ospita” il Ka in questo periodo, ma anche successivamente. Ciò spiega anche la presenza di molte statue uguali, nelle tombe più ricche: se una fosse andata distrutta, le altre avrebbero sopperito.
Un racconto millenario.
Il più antico racconto di fantasmi è stato ricostruito grazie ad alcuni frammenti (ostraka) custoditi nelle collezioni del Museo Egizio di Torino, al Louvre di Parigi, al Museo Archeologico di Firenze ed al Kunsthistorisches Museum di Vienna e risalenti al periodo ramesside (1292- 1064 a. C.).
La storia è incompleta, ma le parti presenti sono sufficienti a capire la trama del racconto: un uomo, il cui nome è sconosciuto, si rivolge ad un sommo sacerdote del dio Amon, poiché ha vissuto un’esperienza drammatica! Si trovava nella necropoli di Tebe (forse era uno dei tanti artisti o artigiani che vi lavoravano incessantemente alla costruzione delle tombe) e, durante la notte, era stato svegliato da uno spirito che gli chiedeva aiuto. Il sommo sacerdote, di nome Khonsuemheb, evoca lo spirito, che si presenta come Nebusemekh. Questi racconta di essere stato, 800 anni prima, un ufficiale del faraone. Alla sua morte, era stato sepolto come si confaceva ad uno del suo rango, con tutti gli onori. Sfortunatamente, un crollo aveva distrutto la tomba, negandogli l’eterno riposo, e obbligandolo a vagabondare per l’eternità. Nei secoli, il ka di Nebusemekh aveva chiesto molte volte aiuto, ma nessuno, malgrado le promesse, aveva fatto qualcosa di concreto per aiutarlo. Non si fida nemmeno del sacerdote Khonsuemheb! Questi, per convincerlo della sua buona fede, si siede vicino al fantasma, piange, e vuole condividere il suo sfortunato destino privandosi di cibo, acqua, aria e luce.
Un vuoto nelle fonti.
Qui c’è un vuoto nei frammenti, che riprendono dal momento in cui il sommo sacerdote invia tre uomini a cercare il luogo adatto per erigere una nuova tomba per lo sventurato Nebusemekh. Il luogo ideale viene alla fine individuato a Deir el-Bahari, luogo famoso per il tempio della regina Hatshepsut; i tre inviati ritornano dal sommo sacerdote, e gli riferiscono dell’esito della missione. Il testo si interrompe a questo punto, lasciandoci la libertà di pensare ad un lieto fine o ad altre disavventure dello sfortunato spirito errante!
Conclusione curiosa.
Una curiosità: non è stato possibile identificare con certezza il faraone per cui lavorava lo spirito, ma si è certi dell’esistenza del sommo sacerdote, la cui tomba è stata scoperta nel 2014 da una missione giapponese, proprio nella necropoli tebana.
Chissà che prima o poi anche il suo “fantasma” venga a raccontarci come è andata a finire?!
Angela Cascio