Una discesa nel Maelström.

Edgard Allan Poe si è misurato sia con miti indoeuropei sia con temi che anticipano l’esplorazione dell’inconscio come metodo di cura psicanalitica. Nel racconto “Una discesa nel Maelström” (1841), l’io narrante, un pescatore sopravvissuto al naufragio nel gorgo, nel rievocarlo sembra alludere a un’esperienza interiore, un tentativo di approdo e individuazione nelle profondità del Sé. La rappresentazione simbolica della discesa si esprime nella dicotomia <attrazione/orrore> per il vortice, che attira nei suoi flutti mulinanti la barca da pesca con gli occupanti per sospingerla verso il centro e sommergerla. Il roteare delle acque, fonte di emozioni contrastanti, ricorda, per alcuni aspetti, un

movimento interiore come il fluire dell’inconscio pulsionale nel suo stato primitivo, ossia l’Es (das Es), individuato da Groddeck come espressione di «forze ignote e incontrollabili», travolgenti e imperscrutabili, dalle quali «noi veniamo vissuti». In L’Io e l’Es (1923), Freud lo definisce come un’istanza intrapsichica esprimente «la voce della natura nell’anima dell’uomo». Per molti autori l’Es, al cui potere energetico, inconscio e arcaico, il poeta o lo scrittore visionario avrebbe accesso privilegiato, sarebbe il fondamento della creazione artistica. Tuttavia, quando giunge a sommerge la consapevolezza del reale, creando un cortocircuito emotivo fra l’Io e le istanze morali del Superego, può generare sintomi nevrotici di angoscia e dissociazione. Poe, dedito all’alcool, era tormentato da allucinanti visioni a causa dal delirium tremens.

Antichi miti e moderne nemesi.

Nella storia sul Maelström il suo alter-ego (narratore-personaggio) sopravvive ancorato a un barile, ripetendo la storia di Ulisse, mentre i compagni di avventura periscono. L’eroe omerico vince le potenze infernali del vortice marino, Cariddi, avvinghiandosi a un albero di fico. Entrambi i superstiti della sciagura sono preposti dal dio della narrazione (rispettivamente Omero e Poe) a tramandare il vissuto epico/mitico. Il pescatore del racconto di Poe è sospinto dalla libidine di possesso, variante della libido sciendi di Odisseo, ad arrischiare la vita per testare la propria destrezza, perciò tende le reti sul filo del vortice; dove sa che la pesca sarà più ricca, grazie al mulinello di correnti da cui affiorano pesci in abbondanza. Conosce i tempi di flusso e riflusso delle maree, quindi calcola di sottrarsi alla potenza delle onde affidandosi all’orologio, per calcolare i minuti che lo separano dall’aprirsi del gorgo sull’abisso. Ma la sua fantasia di possesso, o controllo sulla natura, lo tradisce con l’arresto del cronometro. La Nemesi simboleggiata dall’orologio sembra alludere alla scansione meccanica del tempo nuovo che regola i ritmi della civiltà industriale, esercitando una tirannide sull’ambiente naturale. Esattamente come i marinai di Ulisse, che nell’affrontare gli orridi gorghi finiscono divorati dalle sei teste del mostro marino Scilla, i pescatori di Poe sono fuorviati dall’illusoria speranza nell’immediato appiglio, l’anello che non tiene la presa. Li sommerge una potenza cieca e sommamente indifferente, che attrae e respinge con a sua carica di energia psichica; è espressione metaforica della volontà cosmica, presumibilmente la stessa forza immanente che Schopenhauer identifica nella volontà annientatrice del mondo o Wille der Welt.

Orrore come acme del sublime.

Lo spirito visionario di Poe fa dell’orrore suscitato dal Maelström l’acme del sublime, nel pencolamento fra euforica pulsione a varcare il limen, la soglia del quotidiano, e terrore di quanto può trovarsi al di là della soglia dell’esperienza. Lo straniamento che ne deriva, già presagio dello unheimlich, il “perturbante” freudiano, è alimentato dalla seduzione esercitata dall’imprevedibile/ignoto, con destabilizzante effetto a sorpresa. Poe coltiva sul piano letterario la stessa dialettica circa l’ambivalenza di orrore e fascinazione, paura e turbamento, intesa da Kant come struttura del sublime dinamico. Nell’estetica di Poe il sublime è suggerito dagli effetti di una natura numinosa, panteisticamente spiritualizzata, che travolge con la sua labirintica complessità. Il protagonista riuscirà a controllare, se non i ritmi vertiginosi del gorgo, l’energia turbinante delle proprie emozioni dinanzi al manifestarsi del terrificante potenziale dell’energia che si materializza nel vortice. Proprio nel momento in cui perde la sfida con il gioco di maree che non ha saputo contenere, dominando le potenze dell’anima scaturite dall’immaginario verticale, o dalle vertigini dell’Es, il pescatore-superuomo si salverà. Resta aggrappato a un barile di legno vuoto, che asseconda le spinte mulinanti del gorgo e lo risolleva dai flutti, sempre meno potenti; sicché quando finalmente il flusso delle maree si assesta, chiudendosi sul fondo marino, egli è sospinto verso la riva dal gioco ormai mite delle correnti, restituito alla vita grazie all’ imperturbabilità e alla resilienza. Nel tema della discesa nel Maelström è palese il ricorso alle leggi della fisica e della matematica. Sulla base di principi di fluodinamica, il centro del vortice risulta coincidente con un solido virtuale, che ruota con velocità angolare costante, realizzando un moto in cui le particelle, catturate dal movimento spiraliforme, accelerano avvicinandosi al centro del vortice. Come il gorgo marino della mitologia nordica, da cui prende il nome (Maelström), il vortice esoterico di Poe si apre su un abisso insondabile. Il riferimento immediato alla fonte del narratore implicito, che intuisce il vortice orientato verso il centro della terra, sembra essere la teoria pseudoscientifica della “terra cava” formulata da Symmes, esploratore ed ex militare. Agli inizi dell’Ottocento avanzò l’ipotesi che i poli fossero aperture transitabili, permettendo l’accesso all’interno della Terra sin negli strati più profondi, ragion per cui l’interno della terra sarebbe «abitabile».

Il rapporto con la mitologia nordica.

Il rapporto fra mito cosmogonico e scienza astronomica attraversa la tradizione nordica, che da epoche arcaiche narra di un frullino o mulino stellare e di come, riproducendo il movimento dell’energia vitale circolare degli astri, ricrei e distrugga incessantemente il tempo. Stabilendo l’obliquità dell’eclittica, il mulino stellare mette in scena la precessione degli equinozi, da cui consegue il movimento ciclico delle stagioni, archetipo del mutamento temporale. Il mulino che macina il tempo ha una sua fisionomia materiale e un nome, Grotti (etimologicamente associabile all’inglese to grind < macinare>, e semanticamente affine al lat. molere). Appare evocato nel XIII secolo in un canto dell’Edda dal poeta Snorri Sturluson. Nella cultura norrena il mulino era considerato proprietà del re Froðhi, sovrano dell’età dell’oro, quindi usurpato al gigante Amloði (fonte dell’Amleto shakespeariano, attraverso Saxo Grammaticus e Snorri). Il mulino, che in epoche propizie macinava oro e grano in abbondanza, sarebbe sprofondato in mare al largo delle coste norvegesi per macinare poi solo sabbia e sale, causa l’avidità di indegni eredi. Nel punto in cui il mulino Grotti precipitò, restando sommerso, si formò il terribile gorgo Maelström, definito come “ombelico del mondo”. Il racconto tramandato dalle cosmogonie nordiche è stato riportato alla luce dal bellissimo libro di De Santillana e Herta von Dechend, “Hamlet’s Mill” (Il Mulino di Amleto, Adelphi 1983), che stabilisce punti di contatto fra la lirica di Snorri, Skàldskaparmàl e l’Odissea. Di interesse rilevante rispetto a questa “rilettura” del pescatore-naufrago in chiave omerica, è il motivo della macina e della ribellione delle mugnaie – profetesse, addette alla macina del mulino, giorno e notte, per l’insaziabile voracità degli usurpatori, motivo conduttore attestato sia nel canto norreno sia nell’episodio dell’Odissea relativo ai Proci.

Angelica Palumbo