Vi è una angoscia che non è generata da un oggetto specifico, né da un pericolo imminente. È un sentimento primordiale, spesso addirittura associato a elementi positivi, come lo stupore.
Nell’antica Grecia thaumazein indica proprio quel senso di sbalordimento misto ad inquietudine che definiva l’animo filosofico, e Aristotele ce ne parla in termini precisi:
“Infatti gli uomini hanno iniziato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia. Mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’universo intero. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in un certo senso, filosofo: il mito infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia”. (da Aristotele, Metafisica, I, 2, 982b, 12)
Se nella storia della filosofia ha prevalso l’interpretazione più ottimistica e positiva, non bisogna dimenticare l’ambivalenza del termine: proprio come un Giano bifronte, ciò che affascina può

anche terrorizzare, e la nascita della filosofia nasconde dentro sé questo tratto “horror”.
Dalla paura ci si difende in vari modi: con un Dio che ci protegge, con un’anima immortale, e con il pensiero. Emanuele Severino ci ricorda che è la paura della morte alla radice del filosofare, e non bisogna dunque meravigliarsi se termini quali nausea, timore, Angst, siano la bussola di molti intellettuali e delle loro opere. (Non era anche lo stesso Platone a dire che la filosofia è preparazione alla morte?) Heidegger ci parla appunto di quell’Angoscia che ci sovrasta di fronte al nulla: non uno spossamento per un oggetto determinato, non una paura per qualcosa, ma per l’in-determinato dell’Esserci di fronte al mondo. L’uomo è avvolto da una sorte orrifica, e la nostra società, con la chiacchiera, il cicaleggio inutile della società di massa, vuole stordirsi e negare la verità, ovvero Essere-per-la-morte.
È la finitudine esistenziale, e la paura connessa, a segnare le nostre vite. Paure enormi, ancestrali, addirittura sublimi, se pensiamo al Kant estasiato che, nella Critica del Giudizio, ci ricorda dei nostri stati d’animo di fronte a un impetuoso mare in tempesta. Fascino seduttivo del pericolo, amor fati, comunque presenza dell’incontrollato. Questo elemento segna la letteratura horror e non solo, ed è esattamente dominio dell’incontrollato su di noi. Eppure la paura ha sempre bisogno di altro per essere tale: non mancanza di coraggio, bensì presenza di ciò che più desideriamo. Colei che resta la massima aspirazione per la maggioranza degli uomini, è anche foriera di guai. È la libertà.
Kierkegaard ce ne parla senza mezzi termini nel suo Diario: “L’angoscia si può paragonare alla vertigine. Chi volge gli occhi al fondo di un abisso, è preso dalla vertigine. Ma la causa non è meno nel suo occhio che nell’abisso; perché deve guardarvi. Così l’angoscia è la vertigine della libertà”.
Proprio l’essere liberi ci rende vulnerabili e indifesi: di fronte alla possibilità come dimensione autentica dell’uomo, è chiaro che ombre spaventose offuscano il lume della ragione, facendoci temere il naufragio dell’esistenza. Così definisce il vivere K. Jaspers, e similmente lo avverte J.P. Sartre quando ne La nausea descrive quel sentimento che ci attanaglia mentre osserviamo il mondo.
Libertà e paura vanno di pari passo, e ci inseguono sempre, perché implicano non soltanto l’eventualità dell’orrore, ma anche – ancor più inquietante – che quell’angoscia venga evocata proprio dalle nostre azioni, consapevolmente o meno. Non è forse Amleto, principe di Danimarca, il simbolo dell’uomo che tituba, che non riesce ad agire, sconvolto ma anche paralizzato davanti agli eventi imponderabili?
Davanti alla vita, dopo la religiosa caduta nel regno della polvere, persa la sicurezza edenica, l’uomo è costretto a brancolare nel buio, e dentro quel buio immaginare dita che si allungano, arti mostruosi, figure indicibili pronte a rubargli l’anima, a offenderlo, a privarlo della possibilità di una redenzione.

Andrea Comincini

L’immagine è un particolare di una tavola realizzata da Valentina Biletta Per il volume di prossima pubblicazione “Il vento nel cespuglio di rose e altre storie del soprannaturale”